
Quale futuro per la Siria?
«La gente non ha fiducia nel futuro, ma il vero problema è che manca una certezza di bene nel presente. E senza fiducia non c’è speranza»
Domani, il 15 marzo, è l’anniversario dello scoppio della guerra civile in Siria. Proprio quattordici anni fa, con l’insorgere delle proteste che in tutto il Medio Oriente hanno preso il nome di “Primavere arabe”, ha avuto inizio in Siria una guerra le cui ferite continuano ancora oggi a sanguinare.
Proprio questi ultimi giorni hanno visto dilagare attacchi e massacri ai danni di più di mille civili alawiti: sono state ordinate indagini governative e inchieste internazionali, ma nel frattempo il Paese resta preda di una forte e spaventosa instabilità politica e sociale.
Esistono però anche traiettorie diverse: storie che non si piegano, che resistono e guardano avanti dritto verso il futuro. In questo anniversario vogliamo provare ad immaginarlo, un futuro: due voci controcorrente ci raccontano la forza della perseveranza e della speranza, in ogni contesto e in ogni luogo.
La storia di Rima
«Mi chiamo Rima e ho 17 anni. Quando mia madre mi ha iscritta al centro musicale, ho visto tanti strumenti diversi, ma il pianoforte è stata la mia prima scelta. Ho iniziato a impararlo poco a poco e, con il tempo, ho sentito che la musica era diventata parte di me».
Questa è la voce di Rima, chiara e cristallina nella felicità di aver scoperto un nuovo linguaggio che le permette di esprimere una parte profonda di sé. Rima vive a Damasco e ha la sindrome di Down: «Dio mi ha donato una figlia speciale, con la sindrome di Down. Ma non ho mai visto questo come un ostacolo alla realizzazione dei suoi sogni», racconta sua madre. Crede profondamente nella capacità di Rima di imparare e crescere, ed è sempre al suo fianco in questa ricerca. «La musica dona conforto e permette di esprimersi, quindi ho voluto che Rima imparasse questa arte. Quando ho scoperto il Franciscan Music Centre gestito da Pro Terra Sancta e i vantaggi che offriva – come un’iscrizione simbolica e i progressi evidenti nei bambini che lo frequentavano – ho capito che sarebbe stato il passo giusto per lei».
«Non nascondo che all’inizio avevo paura. Temevo che Rima potesse essere rifiutata o che la gente pensasse che non potesse imparare come gli altri. Ma sono rimasta sorpresa dalla grande accoglienza e dalla disponibilità dell’intero team». «Non sono mancate le difficoltà iniziali, ma Rima ci ha sorpresi», commentano gli insegnanti che hanno seguito Rima nella sua scoperta della musica: «Con il tempo ha fatto progressi straordinari, arrivando a un ottimo livello prima che la sua famiglia si trasferisse a Erbil. Quando è partita, sapeva già suonare con entrambe le mani, un traguardo che richiede grande impegno e concentrazione. Era in grado di eseguire brani completi e leggere le note musicali con sicurezza».
«Esprimo la mia più profonda gratitudine a tutti coloro che al centro musicale hanno contribuito con il loro impegno e la loro dedizione»: la madre è commossa nel vedere la figlia serena e padrona di un linguaggio che la aiuterà a costruire una sensibilità e di un’apertura al mondo, un regalo prezioso e più che mai necessario. «Il suo percorso nella musica non è stato solo un esercizio tecnico,» spiegano gli insegnanti, «ma una storia di sfida e creatività. È la storia di una ragazza che non si è lasciata fermare da nulla e di una madre che ha sempre creduto in lei. Oggi, Rima non si limita a suonare musica: suona speranza, passione e determinazione, dimostrando a tutti che la volontà può trasformare i sogni in realtà».
Una certezza di bene nel presente
La seconda storia è tratta dall’articolo dedicato al nostro collega Jean-François Thiry, uscito sul numero di marzo di “Tracce”. Jean-François racconta le attività in loco di Pro Terra Sancta, e la fiducia nella possibilità di un presente e un futuro diversi che ne costituisce la premessa fondamentale.

Essere attori di pace vuol dire guardare ai più bisognosi. La certezza della nostra fede ci apre agli altri. In questo momento noi cristiani stiamo abbastanza bene, ma ci sono comunità che subiscono violenze e discriminazioni: penso ai drusi, agli alawiti, agli sciiti. Se un membro soffre, tutto il corpo soffre, quindi non possiamo difendere solo la nostra piccola enclave e rifugiarci in quartieri cristiani. “Non dobbiamo difendere spazi, ma aprire processi”, diceva il Papa: questo è il nostro compito. Iniziare processi di dialogo. Abbiamo un ufficio con quattro persone, più di cento educatori, una cucina con mille pasti al giorno per i più poveri, musulmani e cristiani. Stiamo cercando di dare un’educazione sia ai bambini che non vanno a scuola ma a lavorare, sia alle mamme, una formazione professionale che permetta loro di guadagnare di che vivere, perché io penso che la diseducazione porti violenza. Quando hanno liberato il Paese hanno aperto le prigioni. Da quella di Sednaya (30 chilometri a nord di Damasco) sono uscite 30mila persone, per lo più prigionieri politici, alcuni lì da 40 anni, torturati, in condizioni disumane. Le donne che sosteniamo non sapevano dove fossero i loro mariti. Ora molti sono tornati, sono ex militari che han fatto la guerra per dieci anni e sanno fare solo questo. Il loro stato psicologico è devastato. Due settimane fa abbiamo aperto un centro per la riabilitazione psicologica. Tra di loro c’è chi preferirebbe tornare in prigione perché non riesce a riadattarsi. Un bisogno enorme da incontrare e guardare. Due settimane fa è venuto il cardinale Claudio Gugerotti, mandato dal Papa per mostrare la sua vicinanza. Ha incontrato i parrocchiani ad Aleppo. “Ci aiuterete ad andare via dalla Siria, a ottenere un visto?”, chiedevano alcuni al cardinale. Tutti hanno applaudito. È stata una pugnalata. “No, vi aiuteremo a continuare una presenza”, ha risposto lui. La gente non ha fiducia nel futuro, ma il vero problema è che manca una certezza di bene nel presente. E senza fiducia non c’è speranza.