padre hanna jallouf

Intervista a padre Hanna Jallouf

Giacomo Pizzi22 Agosto 2025

«Anche io sono stato fedele alla mia parola: da quando non ti ho visto non ho suonato più le campane»

Padre Hanna Jallouf
Padre Hanna Jallouf

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Intervistatore

Partiamo dall’inizio. Cioè: quando è che ha scoperto di avere la vocazione ed è entrato nell’Ordine di Francesco? Dove è nato e come è nata la sua vocazione?

Mons. Hanna Jallouf

Torniamo all’origine. Va bene. Io ho sempre avuto il pensiero di fare il frate, cioè almeno il sacerdote più che il frate, perché ho visto che tanti sacerdoti sono passati nella mia vita, sia nelle missioni vicino a Damasco, sia anche un nostro frate che stava a Damasco, che si chiamava padre Ibrahim Yones. Era il parroco: andava a visitare gli ammalati, li aiutava con le medicine, metteva la moneta sotto il cuscino proprio per rispetto. Io vedevo, guardavo.

A un certo punto i frati francescani, dopo la guerra del ’67, hanno aperto qui ad Aleppo il collegio minore, cioè un piccolo seminario. Io, dopo aver preso la terza media, sono venuto qua, sono entrato in seminario fino a prendere la maturità classica. Quando ho preso la maturità classica, mio padre non voleva che continuassi la vita dei frati: «Chi mi aiuta?», diceva, perché sono il primogenito. «Chi mi aiuta per la famiglia?». Gli ho detto: «Senti, se il Signore mi ha chiamato vuol dire che mi vuole, e il Signore ti aiuta». E davvero: appena sono entrato in seminario, mia sorella è stata assunta come impiegata, maestra. E così sono andato avanti.

Ho fatto il primo anno di lingua italiana a Roma, poi il noviziato a Fontecolombo, dove san Francesco ha scritto la Regola francescana, nella Valle Reatina. Poi sono andato a cominciare la filosofia a Beirut, però è scoppiata la guerra del ’75. Allora i superiori hanno deciso di mandarci di nuovo in Italia e ci hanno messo alla Porziuncola, ad Assisi. Lì abbiamo fatto cinque anni tra filosofia e teologia. Sono stato ordinato sacerdote nel 1979 a Damasco e poi ho cominciato la mia vita come frate francescano.

Prima sono stato qualche mese a Damasco, poi vice-rettore del collegio di Amman. Dal collegio di Amman sono stato trasferito in Egitto, ad Alessandria, per un periodo. Nel frattempo volevano un rettore al seminario qui ad Aleppo: allora mi hanno trasferito dall’Egitto ad Aleppo, per completare la «profezia dell’Egitto: ho chiamato mio figlio». E di là, piano piano, dopo sei anni di servizio qui, ho chiesto di andare in Italia per continuare i miei studi. Mi hanno mandato a Roma, sono andato all’UPS, l’Università Salesiana: ho fatto pastorale, organizzazione e animazione.

Di lì mi hanno mandato come missionario a Gasaniye, nel nord della Siria. E lì sono stati gli anni più belli del mio studio, perché era ancora una missione un po’ più terra terra: la gente era molto semplice, molto brava, non aveva ancora contaminazioni. Ho fatto per loro la festa della Madonna, la festa del Papà il giorno di san Giuseppe, e ho fatto anche la festa di san Simeone il 2 febbraio. Così, con la gente, ho cominciato a vivere veramente la mia fede.

Poi mi hanno chiamato ad andare a fare il rettore del Terra Santa College di Amman. Sono stato nove anni: non soltanto rettore del collegio, ma anche segretario generale delle scuole cristiane in Giordania. E di là mi hanno mandato a Knaye (Qunaya), nel 2001. E dal 2001 fino al 2023 sono stato parroco e superiore di San Giuseppe.

Intervistatore

Prima della guerra…

Mons. Hanna Jallouf

Lì era come una villeggiatura. Abbiamo pensato: che cosa possiamo fare per alzare il tono della vita della gente che vive lì? L’unica soluzione era allargare il convento per ricevere i gruppi giovanili durante l’estate. E così abbiamo costruito sale, dormitori, cucine e tutto questo. Dovevamo ospitare quasi 400 ragazzi. Domani, quando andrete lì, vedrete tutto quello che abbiamo fatto.

Però è scoppiata la guerra, e questo lavoro è servito per ricevere le famiglie che sono state sfollate dagli altri villaggi. Avevo quasi 120 famiglie dentro il convento, tra cristiani, musulmani sunniti e musulmani alawiti. Ho dovuto dividerli in tre parti: ogni parte non vedeva l’altra. Abbiamo messo i cristiani in mezzo per pacificare il convento.

Intervistatore

Però a Knaye il convento non l’ha fondato lei, giusto?

Mons. Hanna Jallouf

Il convento di Knaye è stato fondato nel 1878, quando è iniziata la missione francescana, perché il villaggio era tutto depresso. Il prete armeno ha chiesto la protezione dei frati per non essere sterminati. Allora i frati francesi sono intervenuti e hanno aperto una missione a Knaye e Yacoubieh, e poi piano piano nei villaggi intorno.

Due bambini a Knaye, Siria
Due bambini a Knaye, Siria

Intervistatore

Com’è stato vivere i primi anni di guerra lì a Knaye, che era isolata rispetto a tutto il resto?

Mons. Hanna Jallouf

La guerra è iniziata nel 2011. Eravamo 10.000 cristiani nella provincia di Idlib, con 11 preti e 4 famiglie religiose. Eravamo greci ortodossi, armeni ortodossi, latini e protestanti. Dai 10.000 siamo rimasti 700 persone, poi tutti sono scappati via. Siamo rimasti noi due francescani per servire la gente che è rimasta. Tocca a noi fare tutto: celebrazione delle messe, servizio liturgico, battesimi, matrimoni, funerali, tutti i riti.

È vero, era la guerra; però la guerra ci ha anche unito sotto una sola fede e un solo Cristo. Ho chiamato la gente che è rimasta: quelli che sono entrati da noi, i jihadisti, non sanno né greco, né latino, né armeno; sanno solo che tutti siamo fedeli. Se ci arriva un pezzo di pane, lo dividiamo tra noi. E così è andata avanti.

I primi a entrare sono stati l’Esercito Libero, poi è venuto l’ISIS, dopo l’ISIS è arrivata Jabhat al-Nusra, fonte della rivoluzione, e poi Hay’at Tahrir al-Sham, alla fine. Quindi sono quattro tipi di rivoluzionari, uno differente dall’altro.

Il primo incontro con l’ISIS è stato scioccante, perché basta sentire il nome di ISIS e uno trema. Due giorni dopo il loro ingresso, viene uno, bussa alla porta del convento, chiede di me. La suora apre la porta. «Dov’è il padre?». «Non c’è». «Dove è andato?». «Non lo so». «Quando rientra?». «Non lo so». «Digli che domattina alle nove verrò da lui». «Ma chi è lei?». «Io sono Abou Ayyub al-Tunisi, il capo religioso di ISIS». È andato via. La suora viene da me: «Padre, è venuto uno così, così, così… e ha detto…». Io sono impallidito, perché non sapevo come comportarmi. Sono andato a fare una preghiera: «Dio, Signore, questo gregge che ho non è mio, è tuo. Dammi soltanto la saggezza di saper fare e saper rispondere».

L’indomani, alle nove in punto, due macchine blindate arrivano e si fermano alla porta del convento. Tutti armati, con i Kalashnikov a tracolla, cinture minate. Uno alto un metro e novanta, con le spalle larghe, scende, mi saluta con arroganza e mi dice: «Sono Abou Ayyub al-Tunisi». Io, allo stesso tono, rispondo: «Sono padre Hanna Jallouf». Perché nella psicologia, al primo incontro, se tu stai all’altezza, allora c’è rispetto; se no ti ammazza, ti stermina. «Va bene, avanti, si accomodi». Voleva entrare al convento. «Dove vai? Qui è terra sacra: non puoi entrare con le armi, per favore mettile fuori». Si è infuriato: «Noi entriamo con le nostre armi dove vogliamo, scassiamo le porte, scassiamo tutto; anche nelle moschee possiamo fare quello che vogliamo». Io rispondo: «Se tu credi che le tue armi ti proteggano, benvenuto. Avanti». Allora è entrato lui con un altro, già coperto in faccia.

Entra e comincia a invitarci alla fede musulmana, con versetti del Corano, per dieci minuti. Io annuivo: «Va bene…». Dopo che ha finito, gli ho detto: «Lei si chiama Ayyub al-Tunisi, è vero? Vuol dire che è della Tunisia?». «Sì, della Tunisia». «Prima di essere musulmana, la Tunisia era terra cristiana e ha dato alla Chiesa tanti santi: sant’Agostino, santa Monica, santa Perpetua e Felicita, san Cipriano… e io la invito a tornare alla sua fede cattolica». Madonna, gliel’ho proprio detto così! Si è infuriato: «Io non credo alla storia». «Va bene: se tu non credi alla storia, che cosa stai facendo nella nostra geografia?». Poi ha cominciato a domandare: chi siete, il vostro fondatore… Alla fine ho detto: «Senti: io non sarò musulmano, e neanche tu — come preferisci — sarai cristiano. Dimmi che cosa possiamo fare insieme per servire questo popolo che abbiamo».

Intervistatore

E cosa ha risposto?

Mons. Hanna Jallouf

Mi ha risposto: «Se non volete entrare nella fede musulmana, tra noi c’è il Trattato di Omar». Il Trattato di Omar, quello tra Sofronio, patriarca di Gerusalemme, e Omar. Ho fatto finta di non capire di cosa si tratta. Mi ha detto: «Dovete togliere tutti i vostri segni religiosi esterni, le vostre croci; fate uno, due, tre; togliete anche le strutture e le scritte che sono sui muri; coprite le vostre donne e pagate i tributi». L’ho guardato, ho fatto un piccolo sorriso e ho detto: «Gli ultimi due, no». «Perché?». «Le donne si vestono degnamente: mettono la sciarpa, la gonna sotto le ginocchia, va bene; però non si velano come le vostre donne. Questa è la prima cosa. La seconda: noi non abbiamo portato o usato armi contro di voi; per questo tocca a voi proteggerci. Voi potete proteggerci dai missili del governo?». «No». «Allora non paghiamo». In tutta la Siria e l’Iraq dove sono stati ISIS, ogni cristiano ha pagato 17 grammi d’oro. Noi non abbiamo pagato nulla.

Poi ho detto: «Io ho una persona che da 58 giorni è stata rapita. Non so che fine ha fatto, non so se è ancora viva o morta. Potete aiutarci a trovarla?». Mi ha risposto: «Se Dio vuole, inshallah». Inshallah non vuol dire né sì né no. «Io voglio o sì o no». «Ti ho detto: inshallah». «Settanta per cento? Ottanta per cento?». «Inshallah». Così è finito il colloquio tra noi ed è andato via.

Allora ho parlato con la gente: «Dobbiamo togliere questo e questo». Era sabato. Il venerdì successivo, alle due, viene alla porta e mi porta quell’uomo che era rapito, e me lo consegna. Mi disse: «Ecco, sono stato fedele alla mia parola». «Anche io sono stato fedele alla mia parola: da quando non ti ho visto non ho suonato più le campane. Non soltanto voi siete fedeli alla vostra parola: anche noi siamo fedeli alla nostra parola». È nata così tra noi un’amicizia incredibile, che non si può definire.

In quei giorni che sono rimasti da noi avevano molta fiducia nei cristiani. Se volevano qualcosa — per esempio acqua o da bere, o così — chiedevano a noi: mai hanno chiesto un bicchiere d’acqua ai musulmani. E di più: i musulmani intorno, che avevano preso le nostre macchine e i nostri strumenti di agricoltura, di notte cominciavano a restituirli e ci dicevano: «Per favore non dite che erano rubati e chi li ha rubati, sennò questi ci ammazzano: o tagliano la testa o tagliano la mano». Sono rimasti da noi 105 giorni. Non è rimasto nessun fornicatore, nessun ladro, nessun bugiardo: tutti sono scappati via per paura di essere sterminati.

Dopo di loro arrivano Jabhat al-Nusra, praticamente il Fronte della liberazione. «Come eravate d’accordo con ISIS?». «Abbiamo detto che c’è il Trattato di Omar». «Allora rimanete come eravate». Però dopo un mese hanno negato tutto: hanno preso le nostre chiese, i nostri terreni, le nostre case, i nostri beni, e cominciò la persecuzione, la vera persecuzione cristiana.

Intervistatore

E secondo lei perché hanno cambiato?

Mons. Hanna Jallouf

Perché già nella loro mentalità vogliono fare uno Stato islamico. Sono venuti per avere una terra arida, senza acqua, soltanto per i musulmani. Per questo ci hanno trattato malissimo: eravamo in decima categoria, ci cacciavano via dai tribunali, via da tutto quanto, e così via.

Intervistatore

C’era comunque un rapporto, come con l’ISIS? O con loro era impossibile?

Mons. Hanna Jallouf

No. All’inizio abbiamo cominciato con i capi ad avere un po’ di relazione buona; però con la gente, no. Un giorno viene uno da me, chiede una stanza per fare un laboratorio di strumenti per i mutilati: chi ha la gamba rotta, chi ha perso una mano. Ho detto: «No, non ce l’ho; siamo soltanto un dispensario per noi». Era verso le undici. Verso l’una viene uno dei miei operai e mi dice: «Padre, questi hanno sfondato la porta del convento delle suore, sono entrati dentro e stanno mettendo tutto a loro gusto, e hanno già portato la loro gente». Vado lì, mi sono avventato con loro: niente. Però avevo amici dell’Esercito Libero, perché erano uno contro l’altro. Mi hanno detto: «Senti, tieniti forte, chiedi quello che vuoi, noi siamo con te». Sono usciti, però: «Ci fai un po’ di mossa, chiama un po’ di gente». E così abbiamo fatto: abbiamo chiamato un po’ di gente, abbiamo chiesto che il loro capo venisse da noi; abbiamo dato alternative, che andassero fuori. Niente da fare.

Siamo rimasti dalle tre del pomeriggio fino alle undici di sera. Alle undici di sera viene il loro capo: «Che cosa volete?». «Vogliamo che questa gente esca fuori». «Lasciateli qui fino a domani». «No». In arabo si dice: «Basta che tu li trascini, muori». Subito devono uscire. Ha cominciato… «Ma non ci sono macchine». Abbiamo trovato macchine all’una e mezza, dopo mezzanotte. Abbiamo finito la storia. Il loro capo chiude a chiave, mi consegna le chiavi: «Scusate di quello che è successo». Era una buona relazione con noi, però poi si è frantumata.

Un giorno vengono al convento: «Avete armi dentro il convento. Vi vogliamo fare una visita». Era tarda sera. Entrano nel convento, arrivano al mio ufficio, cominciano a sfogliare foglio per foglio. Davanti a loro viene un documento scritto da me al governo: «Io, sottoscritto superiore, attesto che il religioso padre Tizio è stato ammazzato dai ribelli fanatici: vi prego di cancellare il suo nome dall’anagrafe». Questa è la lettera. Dice: «Scrivi». Prendo una penna, un foglio, e scrivo. «Io, padre Hanna Jallouf, superiore di… attesto che oggi sono stato ucciso da Jabhat al-Nusra…». Faccio la data e firmo. Ha preso la pistola e me l’ha messa alla testa. Quello che stava vicino a lui ha detto: «Aspetta. Non sappiamo che cosa ha fatto. Non ucciderlo adesso. Se adesso non ti uccido, domattina, in piazza pubblica, ti ammazzerò. Così la gente saprà quello che hai fatto». «La gente sa quello che ho fatto, ma domani vedrà quello che farai».

Dopo questo fatto ho chiesto di andare dal capo. L’indomani, era il 5 ottobre, dopo la festa di san Francesco, sono uscito praticamente con il capo del villaggio… sono andato con la mia macchina, scortato da un’altra macchina. Con me tre armati. Mi hanno portato: rapito. Mi hanno messo in prigione. E poi, di notte, sedici dei miei parrocchiani sono stati portati e anche picchiati: volevano che diventassero musulmani, ma niente da fare. Dopo mezzanotte hanno portato anche loro in prigione. Poi hanno sfondato tutto, hanno portato via tutta la roba del convento.

Al momento dell’investigazione e del colloquio, mi domandavano: «Tu hai collaborato con l’esercito ausiliario?». «Sì, è vero: ho collaborato con l’esercito, però per casi umani; non sono andato lì a portare armi». Per tre anni una donna musulmana, come loro, sunnita, ha avuto il dolore del parto. Viene da me e dice: «Padre, ora sono così… se vuoi parlare con l’esercito per aprire la strada e togliere il blocco che si trova vicino a Knaye…». Ho parlato col capo dell’esercito lì. Mi ha detto: «È impossibile». «Senti: se questa ragazza muore, io domani ti accuso in tribunale che hai mancato al tuo dovere. Questo è il tuo ufficio». Dopo cinque minuti ha aperto la strada, e questa donna è andata, ha potuto partorire ed è tornata. Questo blocco voi, per otto mesi, avete cercato di aprirlo e toglierlo: due volte avete mandato macchine blindate e minate e non avete potuto aprirlo. Io, per la mia persona, l’ho aperto. Questo non è una condanna contro di me: è un onore per me, un’onorificenza sul mio petto.

Poi ho chiesto: «Ma voi siete senza figli, senza vergogna, senza religione?». Quello che faceva l’investigazione: «Come? Perché?». «Tu accetti che tua madre vada a dormire con gli uomini nella stessa stanza?». «No». «Allora come mai avete messo le vostre donne con gli uomini nella stessa stanza?». «E che vuoi che facciamo?». «Voglio che le chiamiate una per una, fate le domande: se ha torto, la trattenete; se no, la mandate a casa». L’indomani porto la macchina, tutte le donne le porto a casa. Siamo quasi arrivati a venti giorni, e poi ci hanno liberato.

Intervistatore

E com’è stato il rapporto, invece… perché c’è stato un periodo in cui anche al-Jolani ha vissuto a Idlib. Sì? Poi siete diventati amici?

Mons. Hanna Jallouf

Questo era nel 2015. Fino al 2017 le cose sono andate male; dopo il 2017 già al-Jolani ha cambiato, più o meno ha cambiato, perché ha cominciato a pensare a fare un nucleo di Stato. E per fare uno Stato non basta essere di un colore: bisogna essere di tutti i colori. Allora si è avvicinato a curdi, turchi, turkestan, turkmeni, cristiani e russi. Si è avvicinato anche a noi.

Fino al 2022 è stato il primo incontro tra me e al-Jolani. Ho portato con me venti persone dei miei, per vedere tutto quello che avevano, con le storie e i problemi. Quando è entrato ci ha salutato, si è seduto e ha detto: «Io vengo qui non per farvi una predica, ma per ascoltarvi» «Anche noi siamo venuti per farti ascoltare, per farti sentire». E così abbiamo parlato di tutti i problemi. L’incontro è durato un’ora e mezza. Dopodiché si è scusato. Gli ho detto: «Anch’io sono stato rapito e messo in prigione». «E chi ti ha messo?». «I tuoi». Lui ha detto allora «Scusate quello che è successo. Spero che da oggi fino all’anno prossimo tutti i problemi tra noi saranno risolti». E davvero, due giorni dopo l’incontro, arrivano quattro dei suoi collaboratori per fare una strategia di lavoro per un anno. Io ho voluto usare un po’ di saggezza: non basta che voglia questo e quello. Ho detto: «La prima cosa che voglio è che siano restituite le proprietà e le case delle vedove e degli orfani». Questa è stata la prima cosa che ho chiesto. In due mesi ho avuto buoni risultati, almeno in due casi, molto bene.

Fino alla mia nomina — era il primo luglio del ’23 — quando ha saputo che sono stato nominato per la Siria, mi ha mandato tre dei suoi intimi collaboratori. Poi mi hanno detto che lui voleva fare un ricevimento a Idlib mercoledì, perché era domenica. «Mercoledì. Se vuoi, porta con te un po’ di gente». «Quante persone? Sette, otto?». «Ma che sette, otto… almeno quaranta». «Accidenti…». Mercoledì mi manda un pullman di 54 persone e un van bianco per me: mi mettono lì e andiamo. Ha fatto un banchetto da re: tutto il ben di Dio. Vuoi dolce? Vuoi frutta? Alla fine a ognuno ha dato una bomboniera, quelle che si distribuiscono nei matrimoni. Ho capito tutto. «La bomboniera è perché tu sei il nostro sposo». «Grazie».

Al momento della mia partenza, due giorni dopo, mi manda il suo intimo collaboratore alle quattro del mattino a salutarmi, a darmi il radiomessaggio; mi hanno accompagnato fino al loro ultimo blocco a Aïn al-Dayr. E così è nata questa amicizia tra noi. Quando hanno occupato Ar-Raqqah, siccome ero vescovo di Ar-Raqqah, conosco tutta la gente che è venuta da Idlib: sono passati da me. Il suo vice, governatore di Ar-Raqqah, mi ha detto: «Vuoi parlare con il capo?». Allora ho dato gli auguri; poi mi ha detto: «Saranno al sicuro loro, i loro beni, le loro case, le loro chiese. Dite loro di fare le loro feste meglio di prima: suonate le vostre campane, suonate nelle vostre chiese, nelle vostre piazze. Fate un esempio, fino a questo punto. E se vi capita qualcosa, basta parlare con me». Per questo, lei mi ha domandato se questo nuovo «artiglierio»… No: io dico che se lui promette, se dice una parola, la mantiene.

Intervistatore

Però tanti cristiani, la maggior parte, quasi tutti, oggi vogliono scappare dall’assedio…

Mons. Hanna Jallouf

Il fatto è che, purtroppo, tanti non vedono la realtà: vedono soltanto tramite i mass media, Facebook. Sai che Facebook ha di tutto; e anche quando c’è un piccolo problema, lo gonfiano per farne una notizia. Quando studiavamo mass media, il nostro professore diceva: «Se un cane morde un uomo, è normale; però se un uomo morde un cane, è già una notizia». È così anche oggi. Non tutto quello che si vede… Oggi hanno messo una foto del fratello dell’ex presidente con un’attrice siriana, e dicono: «Ecco, questa era la sua amichetta». Se si guarda bene, sulle spalle dell’uomo, vestito da militare, ci sono quattro stelle. Nel deserto siriano mai si mettono quattro stelle: vuol dire che la fotografia è falsa, vuol dire che la notizia è falsa. Per questo la nostra gente vede tante cose che li immobilizzano. Però la realtà non è così.

Intervistatore

Però, appunto — non è per contraddirla, assolutamente — noi abbiamo parlato con tante famiglie. Uno poi è spaventato e dice: «Nessuno ci protegge, non ci resta più niente». In questo senso: uno, che cosa risponde rispetto a questo fatto; e due, se ci sono delle azioni concrete che si possono mettere in atto. O sono già in atto, perché lei ha raccontato che ci sono stati alcuni incontri.

Mons. Hanna Jallouf

Uno si domanda: come mai quest’uomo è andato a duellare, ad ammazzarsi, a fare quello che ha fatto?

I martiri sono nostri martiri; tanta gente è innocente, non c’entra con tutta questa storia. Il cristianesimo ha pagato forte, però il cristianesimo non vive senza persecuzione, perché il nostro sangue fa fiorire nuove vie di pace. Se non c’è, vuol dire che siamo fuori strada. Il Signore non ha detto che siete bravi, non ha detto che siete i più alti: dice «Beati voi perseguitati, perché il Regno di Dio è vostro. Sarete perseguitati e vi porteranno…» Così, così, così. Lì sarete beati: non perché state comodi, no; sarete beati perché siete stati perseguitati. Se viviamo la nostra fede, non dimentichiamo che il cristianesimo è nato in Siria: qui, ad Antiochia, per la prima volta i fedeli sono stati chiamati «cristiani». Qui. Allora, se uno scappa dalla croce, non è un cristiano.

Intervistatore

Una domanda: che cosa ha significato vivere da cristiano a Knaye e avere a che fare con i fatti che ci avete raccontato? E oggi che cosa si chiede ai cristiani di Siria?

Mons. Hanna Jallouf

Io vi dico: oggi ai cristiani di Siria bisogna dire che noi siamo testimoni del Risorto. Non alziamo il Vangelo proclamandolo a parole soltanto: dobbiamo proclamare il Vangelo con la nostra vita. Perché a Knaye abbiamo parlato ai musulmani dicendo che il cristiano non mente, il cristiano è fedele, il cristiano ha la porta di casa aperta a tutti i pellegrini, il cristiano è leale. Questi sono i valori che il cristiano deve vivere. Non soltanto bere alcol o altre cose, o vestire con la minigonna e tutto questo. Noi dobbiamo essere pacificatori, portatori del messaggio di Cristo, perché siamo chiamati a questo compito. Grazie.

Padre Hanna Jallouf sarà ospite il 24 agosto 2025 al Meeting di Rimini in un intervento moderato dal nostro responsabile della comunicazione e dell’ufficio stampa, Andrea Avveduto. Qui il link all’evento