Sumaya Halak

Aleppo. Una nota alla volta

Andrea Avveduto31 Ottobre 2025

Sumaya Halak è nata a Ginevra, padre di Aleppo. È un soprano. A un certo punto ha messo in pausa le audizioni e le grandi scene per un progetto che le ha cambiato la vita: “One, Two, Three, Hope, Love, Life”, ad Aleppo. Non per ideologia: per esperienza. Nel 2013, in una serie di concerti, ha visto cosa fa la musica quando arriva al punto giusto: la gente piangeva, si calmava, ricominciava a respirare. “Non perché canto bene—forse anche—ma perché la musica lavora dentro”.

La sua storia non è un curriculum: è un atto di fede. Nel 2013, con una viola da gamba e la sua voce, ha visto cosa succede quando l’arte tocca il punto giusto: “la gente piangeva non perché canto bene – forse un po’ – ma perché la musica lavorava dentro”. Ad Aleppo ha scelto di restare. Ha mancato audizioni importanti ma ha trovato un senso più grande: “È una missione. Non si guadagna. Io ho scelto di non guadagnare”. E mentre lo dice non c’è eroismo in vetrina, solo una naturalezza disarmante.

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Il centro oggi gira attorno a quindici persone: corsi di flauto, chitarra, pianoforte e canto; danza, teatro, artigianato; alfabetizzazione, ginnastica, giochi educativi. Ma i programmi sono la superficie. Sotto c’è un metodo semplice e, per questo, radicale: all’ingresso ci si mette in cerchio e si pronuncia una frase: “Sono la luce, sono l’amore, sono la vita, sono la fiducia, sono l’amicizia, sono la verità, sono il rispetto. Siamo la pace”. Le parole hanno una vibrazione potente, ripete Sumaya. Curano, ma esigono anche una certa responsabilità.

I frutti hanno volti. Mohammed, chiuso nel mutismo, ricomincia a parlare durante una sessione di rilassamento sonoro. Brahim, vita dura e mani spaccate, viene a lezione di balletto senza farsi inchiodare dagli sguardi. Jamila scopre di essere nata per fare l’attrice; le famiglie, intanto, fotografano i figli sul palco e tornano a casa con una fierezza che non si vedeva da anni. Le mamme raccontano che i ragazzi “sono più calmi”: in certi quartieri vale come un trattato di pace.

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Non è tutto un successo. C’è una ragazza sposata a dodici anni: “È un fallimento, non possiamo salvare tutti. Ma spero che torni, che qualcosa sia rimasto nel cuore”. Ci sono i fondamentalisti che sussurrano “haram” (infedeli), e i giorni in cui la guerra riparte il centro chiude all’improvviso.

C’è perfino l’educazione spicciola che sa di vita vera: Naram, un grande talento naturale, arriva due ore in ritardo alle prove. “Stasera non canti. La fiducia è parte della musica”. Così gli dice. Perché non è un gioco: l’arte, qui, è anche disciplina, con le sue regole da rispettare, quelle che danno consistenza e pregio al talento.

Sumaya chiama “i miei bambini” i ragazzi che ha incontrato nel 2020 in un quartiere ferito. All’inizio volevano i vestiti. Oggi li accoglie un coro: “Bonjour, bonjour, ahlan wa sahlan”. Buongiorno, siete benvenuti.. “Non possiamo fare la pace del mondo: possiamo fare piccoli atti di pace, lavorare sulla pace interna, creare momenti di sicurezza e amore nel presente”.

C’è anche un sogno, anzi due. Un coro che diventi un’orchestra di donne. E una promessa: “Se dovessimo scappare, prenderò tutti i soldi che ho e tornerò a prendervi. Faremo l’arca di Noè”. La Terra Santa, dice, è il suo albero anche se non ci è nata: si parte per imparare e si torna per restituire. In mezzo ci siamo noi, migliaia di volti invisibili che mettono un euro, una preghiera, un passaparola. “Così faremo un mare di amore”, sorride.

La sua musica non copre il rumore della guerra, ma dà ritmo al coraggio. Che l’arte, qui, non decora: costruisce. E che la pace, ogni volta, ricomincia da un cerchio di bambini che dicono “sono luce”, e da un’educatrice che, con la delicatezza di un recitativo, ricorda a tutti che la bellezza non è lusso: è una forma di verità. A volte basta questo per far ripartire un futuro: un “bonjour” detto insieme, un passo di danza, il do minore che apre una finestra. Il resto—lo sappiamo—lo fa la fedeltà. E una voce che continua a cantare, piano, dove nessuno ci credeva più.