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Il pasticcere del Cairo

Emma Garroni1 Agosto 2025

Camminare lungo le strade in pietra di un’antica città, mentre le ombre disegnano sul terreno forme allungate, spinte dal sole che tramonta.

I luoghi parlano a chi li ascolta, e raccontano una storia: attraverso di essa, in filigrana, traspare la memoria delle persone che vi sono passate o che li hanno abitati, lasciando dietro qualcosa di sé.

In posti tanto fragili e distrutti come i paesi del Medio Oriente la prima cosa che svanisce, nella narrazione di guerra, è la Storia; e la Storia intesa anche come appartenenza, come identità culturale e personale di popoli che in sé conservano un mondo costruitosi nel tempo. È un mondo di cui esistono, anche se spesso trascurati, dei testimoni. Nasce così il nostro desiderio – che diventa poi la nostra missione: valorizzare i testimoni silenti di ciò che appartiene a quei popoli che oggi il mondo conosce prevalentemente come vittime, come attori di conflitti complessi che sembrano totalizzarne l’identità culturale sin dall’inizio dei tempi. Eppure non è così.

È proprio questo che Martino cerca tra le carte dell’archivio del Centro francescano di studi orientali cristiani del convento Musky, al Cairo: le sue giornate scorrono tra vecchie fotografie, lettere e documenti personali, un oceano di parole e immagini che testimoniano un mondo sommerso e quasi dimenticato. «L’archivio del Musky contiene la memoria della comunità latina del Cairo, quindi di una comunità che di fatto ad oggi sta scomparendo: i discendenti di queste persone sono andati quasi tutti all’estero, qui rimane solo qualche anziano del luogo», spiega Martino. Questo stesso fatto costituisce già una buona ragione per preservare la memoria storica del luogo: «Se queste persone scompariranno del tutto e non sarà rimasta alcuna traccia, si perderà una cosa importantissima: il quartiere del Musky è intrinsecamente e costitutivamente multiculturale e multireligioso, con tante confessioni anche cristiane diverse. Se una comunità scompare è importante che le altre sappiano, che non sono state le uniche ad aver vissuto in questo posto».

Conservare la memoria per preservare la consapevolezza, e per tutelare i diritti delle minoranze e la possibilità di una convivenza pacifica. La memoria di chi vive è effimera, esiste solo finché vive il depositario dei ricordi: «C’è un frate di 95 anni che è una sorta di archivio vivente, perché racconta sempre di come fosse il quartiere prima degli anni ‘50, quando Nasser ha imposto che tutti gli europei in Egitto lasciassero il Paese. Lui ricorda ancora di come fosse quel mondo: ricorda, per esempio, che solo in questo quartiere circolavano sei diversi giornali armeni. Quando lui non ci sarà più rimarrà l’archivio», e allora resteranno da scoprire tutte le storie nascoste tra gli scaffali.

Martino definisce l’archivio «una fotografia che copre le storie di un’intera comunità attraverso i secoli, storie di persone che sarebbe bello poter ricostruire e raccontare». «Pian piano sto ricostruendo la storia di un mercante veneziano, per esempio, il quale, a cavallo tra il 1600 e il 1700, aveva un negozio proprio sotto ai frati, e li aiutava con alcune faccende burocratiche e legali, come l’ottenimento dei diritti di locazione per rimanere nel convento. Tra l’altro è interessante che anche adesso, proprio sotto al convento, ci siano tanti negozi, e uno di questi negozianti fa da rappresentante legale ai frati del convento: è una continuità che fa sorridere, e riduce la distanza percepita tra passato e presente».

«Dai documenti si evince che nel suo negozio questo mercante vendesse dolci, ed era infatti chiamato da tutti nel quartiere “Il pasticcere”. In altri documenti, però, ho trovato informazioni diverse: un inventario conservato in Inghilterra descrive la sua attività come una farmacia. Quindi probabilmente lui era un farmacista che, di facciata, faceva il pasticcere, e poi sottobanco distribuiva farmaci a tutta la comunità occidentale!»

Ci sono tante storie così, in un archivio longevo come quello del Musky: storie di persone semplici, di artigiani, di mercanti, storie di nobili, di personaggi celebri passati di qui per motivi vari ed eventuali. Storie quotidiane e folkloristiche, che raccontano un’umanità la cui esistenza non deve essere cancellata. Tempo fa abbiamo raccontato dei pomeriggi di lettura di fiabe palestinesi che Tali organizza presso il nostro centro di Betlemme. Alla domanda sul motivo della scelta di leggere proprio quelle fiabe, Tali aveva risposto che «Ho scelto questo libro perché è una preziosa forma di patrimonio artistico orale. Queste storie sono antiche, tramandate oralmente nel tempo, di generazione in generazione, non devono morire. È un patrimonio che appartiene alla comunità palestinese: deve rimanere impresso nelle nostre menti e nella nostra coscienza».

Alla base di quel progetto c’è l’idea che educare i bambini ad amare le fiabe della propria tradizione significhi lottare contro la scomparsa di una cultura popolare identificativa; qualcosa di analogo anima anche il lavoro di Martino, e, più in generale, l’impegno di Pro Terra Santa nella conservazione dei luoghi e del loro patrimonio artistico e culturale. «Quando completerò la tesi e finirò il libro in cui ricostruisco tutta la storia del convento vorrei trovare il modo di raccontare questa storia anche alle persone che ho conosciuto lì e che per un anno mi hanno accompagnato»: Martino tiene molto al fatto che ciò che il suo lavoro darà come frutto costituisca una ricchezza in primo luogo per le persone che vivono nel quartiere del Musky. «È anche un po’ una restituzione, in qualche modo. È giusto così. Non voglio essere qualcuno che arriva, fa la sua ricerca, e poi se ne va: voglio trovare un modo per restituire tutto questo alle persone di lì, affinché siano più coscienti della loro storia, affinché possano riappropriarsene».

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