Siria: diario di viaggio

Una nuova Siria. Diario di viaggio

Emma Garroni20 Giugno 2025

«Quello che mi ha colpito molto, veramente, è la potenzialità, per quanto piccola, dell’impatto che possono avere i nostri progetti: credo che sia proprio il momento storico in cui far passare un messaggio, e il nostro intervento può essere questo messaggio»

Teresa Cinquina e Giacomo Gentile, rispettivamente componenti dell’ufficio Major Donors e dell’ufficio Progetti di Pro Terra Sancta, sono da poco tornati da un intenso viaggio in Siria. Hanno trovato un Paese cambiato, diviso tra speranze e paure, promesse e contraddizioni; e hanno ritrovato il senso del lavoro che svolgiamo sul campo ogni giorno, nella ricostruzione di un tessuto sociale oggi ancora profondamente fragile.

Un viaggio nella nuova siria

Chi dopo anni, chi dopo pochi mesi, siete tornati entrambi in una Siria profondamente trasformata: che Paese avete trovato, e cosa vi ha colpito di più di questo cambiamento?

Teresa: «Io non andavo in Siria da sette anni: tornare è stato forte, ho trovato un Paese completamente cambiato. Sicuramente l’entrata è stata molto più semplice, ci sono molti meno check-point e si percepisce una libertà di movimento completamente nuova rispetto agli anni del regime di Assad. Sette anni fa Aleppo era una città fantasma, mentre quella che ho trovato oggi è una città viva.

D’altra parte, ho percepito tanta paura. Soprattutto a Damasco se ne sente lo spettro: lì si ha la netta percezione che la libertà che il governo racconta e quasi ostenta sia in realtà molto “traballante”».

Giacomo: «Io mi trovavo in Siria a dicembre 2024, proprio quando è iniziato il colpo di Stato; paradossalmente mi è sembrata più diversa adesso rispetto ad allora. Certo, a dicembre si capiva già benissimo di avere di fronte un cambiamento profondo pronto ad accadere, ma il Paese a prima vista era ancora come è stato negli ultimi cinquanta-sessant’anni: i check-point, le bandiere, la propaganda iconografica della persona di Assad. Tornarci oggi è stato impressionante perché è proprio cambiato tutto.

Dopo soli quattro mesi ho trovato tutte le bandiere completamente nuove, e nessuna gigantografia del capo di Stato a svettare sulle strade e sui palazzi: è una scelta che vuole comunicare un messaggio forte, un cambio di passo rispetto al governo precedente. Soprattutto, si vuole che questa sia la percezione diffusa: che entrando nel Paese ci si senta al cospetto dell’alba di una nuova Siria».

Come si sta delineando questa nuova Siria, e che direzioni potrebbe prendere? Come viene vissuto questo momento di incertezza dalla popolazione?

Giacomo: «L’impressione è che il nuovo governo voglia fortemente mostrarsi come l’alternativa equilibrata rispetto al precedente regime autoritario, come il fautore di una Siria di nuovo unita e libera, vicina al suo popolo. Le contraddizioni però sono tante, e questo contribuisce alla diffusione di una forte incertezza, che fa paura: anche se al-Shara parla di democrazia e di inclusione, di rispetto delle differenze religiose e culturali, si sta di fatto al contempo affermando un’impostazione islamico-religiosa che prima non c’era. Per esempio, in dogana abbiamo trovato due file diverse per uomini e donne; ancora, il ministro dell’educazione ha già annunciato che, a partire da settembre, anche le classi scolastiche saranno divise per genere».

Teresa: «Anche l’atteggiamento nei confronti degli ex funzionari governativi genera paura e disagi sociali, anche perché parliamo di numeri molto grossi: soprattutto a Damasco, tra funzionari, esercito e personale degli ospedali militari si parla di più di un milione di persone. Tutte queste persone oggi non hanno più un lavoro, né un documento di identità valido, ma hanno invece un settlement status: sostanzialmente si tratta di un foglio nel quale è indicato lo status di ex dipendente del governo Assad, che diventa oggi uno stigma e una ragione di paura per chi ne è “marchiato”.

C’è poi tutto l’aspetto economico, che è disastroso: la gente può prelevare solo 20 dollari al giorno, e non sa più come fare. C’è un’aria di novità, ma gli strumenti ancora non la assecondano affatto».

Giacomo: «Il punto è questo: se il Paese si dovesse stabilizzare economicamente – perché finiscono le sanzioni, perché riparte il mercato del lavoro, perché si stipulano accordi interni e internazionali – di fatto per l’attuale governo significherebbe un’accettazione e una legittimazione del sistema che stanno costruendo. E questo, ad oggi, fa paura».

In mezzo a tutto questo, che significato assume oggi il vostro lavoro in Siria? C’è un momento o una storia che vi ha fatto toccare con mano il senso del vostro impegno?

Giacomo: «Quello che mi ha colpito molto, veramente, è la potenzialità, per quanto piccola, dell’impatto che possono avere i nostri vari progetti di assistenza e educazione e sostegno alla comunità locale: credo che sia proprio il momento storico in cui far passare un messaggio, per ricostruire; e il nostro intervento può essere questo messaggio.

Nel tempo, correggendo il tiro in base ai bisogni che via via emergevano, abbiamo visto davvero dei risultati insperati, che si concretizzano nelle immagini di integrazione e fiducia dei centri di Aleppo Est, nella figura di padre Hanna Jallouf… Nel silenzio, partire dal basso proprio per ricostruire questo tessuto sociale, cercando di far emergere che cosa sia che ci rende uniti, tutti».

Teresa: «Ho incontrato durante il viaggio alcune storie che mi hanno mostrato tutta la luce che resiste, laddove c’è qualcuno che si impegna nel prendersi cura della popolazione locale. Durante il viaggio, per esempio, siamo andati a far visita ad un uomo cristiano che prima lavorava nell’esercito, e che oggi, quindi, è disoccupato. Abbiamo parlato a lungo della situazione politica e sociale, il suo viso si faceva ora triste, ora si adombrava di preoccupazione. Dopo un po’, guardando sua moglie che sedeva accanto a lui, così bella, gli ho fatto una domanda: “Come vi siete conosciuti?”

Il suo viso si è illuminato, ha cambiato espressione e ha iniziato a raccontare con tenerezza del loro amore. Siamo abituati a parlare, con le persone qui, di ciò che manca – perché davvero manca tanto; però è bello riuscire anche a dare uno spazio a ciò che c’è».