
Una rete a maglie strette. Lavorando con SOS Village
«Loro hanno bisogno di una rete, perché altrimenti saranno sempre i figli di nessuno: saranno sempre gli emarginati, gli abbandonati.»
A Betlemme c’è una casa che apre le porte a bambini provenienti da tutte le zone della Cisgiordania. Si chiama SOS Village: un luogo dove i bambini con storie di perdita e traumi alle spalle possono trovare persone che si prendano cura di loro, e costruirsi una comunità di cui sentirsi davvero parte.
Un anno fa, dopo l’inizio della nuova fase di scontri seguita al 7 ottobre 2023, SOS Village ha accolto alcuni bambini sfollati dalla Striscia: «SOS Village Palestina aveva due case: una a Betlemme che accoglieva i bambini da tutta la West Bank e poi una nella striscia di Gaza, a Rafah, che accoglieva i bambini invece della striscia di Gaza», spiega Annalisa Greco, la nostra responsabile dei progetti di Betlemme. «Parliamo più o meno di una sessantina di bambini ospitati a Betlemme e circa un’ottantina che invece erano ospitati a Rafah». Oggi la sede di Rafah, con tutti i bambini e il personale che vi operava, si è trasferita a Betlemme; Pro Terra Sancta vi è così entrata in contatto, e con il tempo si è creata una collaborazione proficua per entrambi.

La collaborazione tra Pro Terra Sancta e SOS Village
«Conoscevamo da tempo la realtà di SOS Village, però non erano mai sorte particolari forme di collaborazione», racconta Annalisa: «il dialogo si è intensificato l’anno scorso, quando sono arrivati i bambini da Gaza, perché la direttrice del progetto ha trovato in noi una possibile soluzione a un problema che iniziava a manifestarsi con forza».
«Si trattava di un problema di integrazione di questi bambini all’interno del contesto di Betlemme. Parliamo di ragazzini con traumi importanti sulle spalle, vissuti per mesi – dall’ottobre del 2023 fino all’aprile successivo – in un contesto di guerra aperta, e ritrovatisi di punto in bianco a Betlemme, dove la comunità è più aperta rispetto a quella di Gaza, lo stile di vita è molto diverso». Anche gli effetti della guerra sono diversi a Betlemme rispetto che nella Striscia: la necessità di adattarsi a un mondo nuovo, composito e aperto, avendo alle spalle l’abitudine alla paura e alla perdita, ha creato in loro uno scarto difficile da colmare.
«Il desiderio era quello di farli sentire a casa, anche se provvisoriamente. È questa necessità che ha dato il via alla collaborazione effettiva tra noi e SOS Village». C’è una ragione che ha portato SOS ad avvicinarsi proprio a Pro Terra Sancta, per perseguire questo obiettivo: «Pro Terra Sancta lavora molto con l’educazione al patrimonio culturale: creiamo tantissimi progetti che mirano a creare integrazione e a dialogo interculturale e interpersonale, e l’obiettivo è spesso perseguito attraverso attività artistiche e culturali. I temi emersi dopo l’arrivo dei bambini di Gaza sono nella natura profonda della nostra Associazione».
Creare una comunità
È così iniziato un lavoro che ha creato legami intensi, costruiti attraverso momenti di condivisione e di scoperta. Annalisa racconta come il lavoro con i bambini di SOS, per quando marginale rispetto alle attività di SOS stesso – più legato alla cura del superamento dei traumi dei bambini – costituisca una ricchezza vera tanto per i bambini quanto per lo staff locale di Pro Terra Sancta.
«Le attività sono molto semplici, non hanno l’ambizione di risolvere i problemi psicologici che i bambini hanno, quanto di creare una relazione, di farli sentire integrati nella comunità e di valorizzare i punti di forza di ciascun ragazzo. Abbiamo organizzato gite per scoprire il territorio della West Bank, siamo andati al mercato centrale di Betlemme per comprare gli ingredienti per cucinare insieme, abbiamo pensato attività artistiche per creare insieme qualcosa di bello e terapeutico per i bambini: sono piccole cose, che però aiutano davvero a creare un rapporto profondo».

Un esempio concreto è di qualche giorno fa, quando «siamo andati nella struttura di SOS perché abbiamo accompagnato alcune persone che volevano vederla. Abbiamo incontrato lì un bambino, Ahmed, che non fa parte del gruppo di ragazzi che seguiamo noi di Pro Terra Sancta perché è troppo piccolo: ha circa dieci anni, mentre i ragazzini con cui noi lavoriamo hanno tutti dai dodici anni in su. Nonostante questo ci conosce tutti, almeno di vista, e quando ci ha visti lì ci è corso in contro e ha iniziato a parlare e a giocare, e continuava a dire al mio collega Roni: “Devi dire alla direttrice [di SOS Village, n.d.r] che devo venire anche io venerdì, perché voglio venire anche io a fare attività con voi! Non è giusto che io non possa partecipare insieme agli altri solo perché non ho ancora dodici anni!”».
Una rete a maglie strette
Le soddisfazioni sono tante: “È molto bello vedere queste relazioni che si creano, soprattutto perché sono il frutto di un grande lavoro che abbiamo fatto all’inizio insieme allo staff di SOS”. L’inizio dei lavori ha visto la partecipazione congiunta delle due associazioni ad un momento di formazione insieme a una psicologa clinica: «L’idea era di scambiarci esperienze e suggerimenti, anche su cosa avremmo potuto riscontrare nei bambini e su come comportarci nelle situazioni che avremmo potuto trovare. Qualsiasi cosa che notiamo, poi, dobbiamo comunicarla ai referenti di SOS: ogni bambino ha il suo case-manager, è cioè gestito da un assistente sociale che ne conosce tutta la storia».
C’è quindi una relazione costante non solo tra noi e i bambini, ma anche tra lo staff delle due associazioni: questo crea una rete a maglie strette, un ambiente familiare in cui i bambini – tanto quelli di Betlemme quanto quelli provenienti dal resto della Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza – possono davvero iniziare a sentirsi a casa, circondati da persone che si prendono cura di loro. «Loro hanno bisogno di una rete, perché altrimenti saranno sempre i figli di nessuno: saranno sempre gli emarginati, gli abbandonati».
L’idea è di farli partecipare a un centro comunitario, per fare delle attività: “che conoscano – conclude Annalisa – persone anche al di fuori della struttura nella quale sono ospitati, che inizino a sentirsi e ad essere parte di una comunità. Questa è la cosa più bella: vedere che, ormai, quando arrivano da noi si muovono con disinvoltura, salutano tutti a destra e a sinistra. Si sentono a casa».